News – Allarme infibulazioni clandestine «Pochi gli interventi ripararativi». Storie dall’XI congresso dell’European college for the study of vulval disease

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16 Settembre 2016

Arrivano in ospedale perché stanno per dare alla luce un bambino, perché devono sottoporsi ad una colposcopia o al Pap test ma prima devono sottoporsi ad una ricostruzione della vagina perché a distruggerla in tenera età sono state pratiche rituali come l’infibulazione. Soltanto dopo queste donne, che arrivano da Africa Nera, Etiopia, Somalia, da luoghi in cui il rito è ancora diffusissimo, potranno dare alla luce il loro bambino, sottoporsi agli esami o curare delle patologie ginecologiche. Pochi casi quelli che si rivolgono agli ospedali torinesi per la “ricostruzione vaginale”, tre o quattro registrati negli ultimi due anni, ma significativi per spiegare l’orrore dell’infibulazione tra le donne migranti.
Prima in Italia e in Piemonte, l’Asl To4 due anni fa ha messo in piedi la “Rete di patologia del basso tratto anourogenitale femminile” attivando ambulatori negli ospedali di Chivasso, Ivrea e Ciriè, per curare le donne che accusano patologie correlate.

Sono tante le storie di bambine che in tenera età vengono sottoposte a infibulazione nei loro paesi d’origine.
«La vagina della bambina viene chiusa a metà circa delle grandi labbra, lasciando solo un foro per l’urina e uno per il flusso mestruale – spiega il dottor Fabrizio Bogliatto, ginecologo dell’Asl To4 che ha affrontato il tema delle Mgf nell’XI congresso dell’European college for the study of vulval disease -. La prima notte di nozze il marito apre la cicatrice con il coltello rituale per permettere il rapporto sessuale, lo stesso per il parto. A seconda delle tradizioni, può essere asportata anche la clitoride, le piccole labbra e parte delle grandi».

Una volta nel nostro Paese accade che quelle bambine, diventate donne, chiedono la ricostruzione dei genitali per riconquistare la femminilità. «Con un approccio multidisciplinare di questo tipo – spiega il dottor Bogliatto – le pazienti vengono prese in carico nell’arco di un mese e mezzo, invece che di mesi. Ma il progetto vuole essere anche strumento di prevenzione: grazie ad un team di medici formati, infatti, vogliamo spiegare alle donne infibulate che questo rito orribile non venga ripetuto sulle loro bambine, e la ricostruzione genitale è la migliore arma per salvarle».
Se negli ospedali di Paesi come l’Olanda le migranti infibulate chiedono la ricostruzione dei genitali per riconquistare la femminilità strappata nell’infanzia dalle mammane dei villaggi, in un paese come il nostro ricostruire significa ancora curare. «Anche noi vogliamo ridare alle migranti infibulate la femminilità che hanno perduto – conclude Bogliatto – consapevoli di essere riusciti a spiegare loro che l’anatomia femminile è perfetta così».
Liliana Carbone